
Un nuovo album dei Tarantolati di Tricarico vale sempre la pena ascoltarlo. Perché tra le migliaia di parole che riescono ad articolare in una canzone, oppure tra gli incastri sempre lineari e cadenzati delle percussioni (loro dicono “strumenti arcaici”), si trova sempre qualcosa che vale la pena riascoltare. Si tratti di un passaggio, di un asciugatura del suono da cui emergono le voci in modo più netto e “libero”, di qualche strumento piacevole, come il mandoloncello, l’ukulele o il bouzouki. “Terra che trema”, recentemente pubblicato da uno tra gli ensemble musicali più longevi del nostro paese, non tradisce queste aspettative: è particolarmente articolato sul piano degli arrangiamenti, il suono e il timbro generale dei dieci brani (più tre bonus tracks) è curato e organizzato con coerenza, il ritmo (manco a dirlo) è forte e deciso. Inutile soffermarci sugli elementi che meglio si conoscono dei Tarantolati, a eccezione di una nota sull’uso delle percussioni che, senza volere per forza fare retorica, è uno degli aspetti più entusiasmanti del programma in questione. È vero che non è una novità, ma questo nuovo album lascia emergere una forma di appropriazione del suono, che diviene nel suo insieme e in particolare dentro l’incedere dei cupa cupa una grande onomatopeica. Che si sviluppa senza sosta e permeando ogni parola e ogni passaggio, come l’elemento più significante della narrazione. Come la soluzione più necessaria e inevitabile.