
Ho la sensazione netta di aver sempre sentito le canzoni di De André fin da bambina, erano nell’aria. Ma quando dodici anni fa il mio amico percussionista e batterista Vittorino Naso mi propose di fare un concerto in duo sulle canzoni di Faber mi sembrò un’operazione difficilissima. Chiamai i rinforzi e chiesi a Gabriele Coen, con il quale collaboravo già da parecchi anni, di far parte del progetto e così in trio vide la luce la prima forma di Ho visto Nina volare.
Mi cimentai in piccoli arrangiamenti che diedero un sapore personale all’operazione pur rispettandone forma e poetica. Ecco mi resi conto lì, che quelle canzoni dense e bellissime stavano in piedi da sole, non avevano bisogno di nulla, spogliate di tutto erano essenza poetica pura. A distanza di qualche anno si formò il progetto attuale con musicisti preziosi come Stefano Saletti e Mario Rivera. Cantare le canzoni di De André è come entrare in un tempio sacro dove è ben chiara la differenza che passa tra semplice canzone e Poesia.
Raffaela Siniscalchi
La prima volta che sono entrato in contatto in modo diretto con il mondo di Fabrizio De André è stato in occasione del nostro secondo lavoro con i Klezroym, la formazione con cui ho lavorato intensamente per circa dieci anni sul recupero della tradizione musicale ebraica e il suo incontro con il jazz. Il disco si chiamava Scenì ed era il 1999… Fabrizio era un punto di riferimento assoluto anche per noi della world music italiana con il suo Crêuza de mä e decidemmo di omaggiare Fabrizio che era venuto a mancare da pochi mesi con la sua Canzone dell’amore perduto. La nostra versione piacque molto ed è ancora spesso associata al nome dei Klezroym.
Gabriele Coen
Il mio incontro con la musica di Fabrizio De André risale alla metà degli anni Settanta. Avevo 11, forse 12 anni. Condividevo un piccolo registratore a cassette con mio fratello e si ascoltava la musica di quegli anni, Neil Young, Deep Purple, Beatles, come tanti ragazzini della nostra età. Un giorno mio fratello inizio ad ascoltare due cassette di De Andrè ed io ne rimasi talmente affascinato da volerle sentirle in continuazione. Lo obbligavo a rimetterle ancora e ancora. Non so descrivere cosa mi avesse colpito così tanto, ma l’emozione fu enorme. In particolare ho subito amato Non al denaro, non all’amore né al cielo, un disco che mi incanta ancora oggi come allora. Le storie dell’Antologia di Spoon River mi hanno accompagnato fin da quegli anni e poterle suonare adesso in questo progetto musicale ha un significato per me molto profondo. Non a caso ho deciso di eseguire una personalissima versione di Un malato di cuore per basso acustico solo che apre il medley da noi dedicato a questo magico disco del 1971, scritto da De André insieme a Nicola Piovani.
Mario Rivera
Parole e musica: l'arte di Fabrizio De André è la sintesi perfetta di quello che si può fare unendo la ricerca del suono della parola con la ricerca del suono nella musica. Non scorderò mai l'emozione e la sorpresa quando a vent'anni ascoltai per la prima volta Crêuza de mä, l'album scritto a quattro mani con Mauro Pagani, l'album impossibile per i discografici scettici che diventa un classico della discografia mondiale, che unisce canzone d'autore, uso della lingua ligure, strumenti e sonorità dell'amato Mediterraneo. E' il disco che, insieme a pochi altri, cambia la mia vita artistica. Il bouzouki greco, l'oud arabo, il saz turco diventano anche gli strumenti espressivi del mio linguaggio musicale con i Novalia prima con la Banda Ikona dopo. E quei vicoli di mare che uniscono il Mediterraneo con le sue storie millenarie, con i vinti e i perdenti di ogni età, con la sua frenesia, la gioia o il dolore cantati e raccontati da De André lungo tutto il suo inarrivabile percorso artistico, sono diventati le storie di tutti di noi. Come quel suo essere sempre "ostinato e contrario" nella Smisurata preghiera che chiude il suo ultimo capolavoro Anime salve. Sì perché, a differenza di altri cantautori, De André è stato immenso fino alla fine, non ha avuto quell’involuzione creativa che ha portato tanti a ripetere cliché musicali ormai logori: no, lui no. Si reinventava, ricercava, sperimentava e andava sempre oltre le convenzioni musicali dell’epoca in cui realizzava le proprie opere. Per questo ha attraversato il suo tempo, per questo c’è ancora voglia di cantare e di suonare, anche con un bouzouki e un oud, la sua musica.
Stefano Saletti